Through the window / Attraverso la finestra

image
image

Window #11a, 2003

Window #22, 2004

“Attraverso la finestra” simula uno sguardo curioso che guarda dentro la finestra di un dirimpettaio
di casa. Una situazione in realtà che la maggior parte dei cittadini conosce bene e che un film come La finestra sul
cortile di Hitchcock ha fatto entrare ormai nell’immaginario collettivo, ma che non ha certo esaurito la sua efficacia.
La finestra è infatti la metafora principe dell’immagine dal Rinascimento in qua – noi guardiamo un’immagine come
attraverso un finestra – per cui quello che vediamo è al di là del vetro, cioè di una superficie trasparente e invisibile
che costituisce il piano di proiezione dell’immagine. Ciò che vediamo di là ci è inaccessibile, se non attraverso le
fantasie o le analisi che vi costruiamo sopra. Così in particolare nello “spiare” dalla finestra: che cosa sta accadendo in
quell’altra casa? Che significato ha? Barrera dunque mette in scena la posizione dello spettatore.
Ma l’inquadratura di Barrera ha due particolarità. La prima è che evidenzia anche la simmetria della situazione,
anzi la specularità – “attraverso la finestra” significa sia attraverso la nostra da cui guardiamo sia attraverso quella che
spiamo –, per cui in fondo noi, immaginando, proiettiamo le nostre aspettative e i nostri pensieri su ciò che vediamo.
Monito per l’interprete, certo, ma anche enigma di ogni immagine.
La seconda è l’evidenziazione dello spazio che separa le due finestre, cioè lo sguardo dalla scena, spazio che
prende tutta la sua forma, vuoto che si manifesta come il vero soggetto dell’immagine. Noi in effetti vediamo qui
soprattutto questo spazio. È lo spazio della scena, la distanza, la dilatazione spaziale – ma anche temporale, a ben
pensarci – del vetro “attraverso” cui guardiamo.

Elio Grazioli

image

Kreuzberg – Berlin, 2009

Giorgio Barrera
Attraverso la finestra_Reggio Emilia. Quartiere Ina-Casa Rosta Nuova

Dal catalogo di Fotografia Europea 2007

 

Quando all’interno di un’immagine, vediamo raffigurate delle finestre aperte, l’impressione è sempre quella di un quadro nel quadro – o una fotografia nella fotografia – cadrage ulteriore in grado talvolta di assorbire e oscurare la funzione del primo e più decisivo ritaglio. Giorgio Barrera ha intrapreso da alcuni anni una ricerca fotografica che adotta proprio questo principio e che ha assunto il titolo, semplice ed emblematico, di Attraverso la finestra. La fotocamera viene posizionata dirimpetto a un edificio di abitazione e orientata verso una o più finestre, a una distanza variabile ma tale che esse costituiscano una porzione considerevole o comunque incisiva dell’inquadratura; nella parte restante sono talvolta visibili l’architettura della casa, le aree antistanti, gli spazi del vicinato. Al di là dei vetri, i residenti, consapevoli della presenza del fotografo, sono intenti in comuni attività quotidiane, in attesa che i lampeggiatori sistemati all’interno della stanza vengano azionati a distanza dall’autore, a sua discrezione, così da permettergli di illuminare adeguatamente la scena e scattare, contemporaneamente, la fotografia.

È evidente, già da questa sommaria descrizione, come il lavoro di Barrera, oltre a giocare con la psicologia dello sguardo, si ponga in un guado, in un terrain vague tra la fotografia staged, “allestita”, e la fotografia straight, diretta, tra l’immagine come documento e quella plasticienne. Si nutre, cioè, dell’adesione al reale di cui solo l’immagine fotografica è capace, ma non manca, al contempo, di inserirsi con coscienza critica in quell’onda generata a cavallo degli anni Sessanta e Settanta da diversi artisti e che ha messo in crisi – e per sempre – il presunto rapporto di fedele corrispondenza tra il mondo concreto e la sua rappresentazione fotografica. Utilizzando la fotografia per riflettere su arte e linguaggio e criticare radicalmente il sistema dell’informazione, fu a partire dalla ricerca di personaggi quali Dan Graham, Ed Ruscha, John Hilliard, Lewis Baltz e molti altri che si giunse a mettere in discussione il “momento decisivo” bressoniano come rivelatore di verità, mentre emerse invece con chiarezza tutta l’ambiguità di cui il mezzo fotografico è capace. Né stupisce, come ha messo acutamente in luce Gilles Mora, che ad aprire sulla lunga distanza, silenziosamente la questione, fosse stato anni prima il fotografo che più di tutti ebbe fame di realtà e di trasparenza, assunto poi a nume tutelare da tutti gli artisti di cui si è detto: quel Walker Evans le cui fotografie «parlano di ciò che è fotografato, di come ciò che è fotografato viene modificato dall’essere fotografato, e di come le cose esistono in fotografia».

 

Giorgio Barrera
Through the window_Reggio Emilia. The Ina-Casa Rosta Nuova district

Thus when we see open windows appearing inside an image, the impression we always get is that of a painting within a painting – or a photograph within a photograph – a further framing that is at times capable of absorbing and blanking out the function of the first and more decisive act of framing. In recent years Giorgio Barrera has engaged in photographic research that adopts this same principle entitled, very simply and enigmatically, Through the window. The camera is placed in front of a residential building and directed towards one or more windows, at a variable distance but so that they should occupy a considerable or at least decisive portion of the shot; in the remaining area one can occasionally make out the architectural details of the house, of the nearby areas, of the neighbouring buildings. Beyond the panes, the residents, aware of the photographers presence, are busy in their everyday activities, as they await the flash units arranged inside the room to be remotely activated by the author, whenever he sees fit, so that he can suitably light the scene and at the same time take the shot.
It’s quite clear, from this very brief description, how Barrera’s work, as well as toying with the onlookers psychology, also places itself in a strange halfway house, at a mid point between staged, prearranged photography and straight, direct photography, between the image as document and a plastic construction. In other words it feeds off the total connection with reality that only the photographic image is capable of, while at the same time critically acknowledging its role within the movement generated during the Sixties and Seventies by a number of artists that was to undermine forever the supposedly faithful correspondence between the tangible world and its photographic representation. The use of photography to reflect on art and language and radically criticise the information system, stems from the research of personalities such as Dan Graham, Ed Ruscha, John Hilliard, Lewis Baltz and many others, research that managed to question Bresson’s “decisive moment” as a revelation of truth, and point out quite clearly all the ambiguity the photographic medium was capable of. Nor does it come as a surprise, as Gilles Mora has very perceptively pointed out, that in the long run, the issue had already been silently raised by the photographer that more than any other was famous for the reality and transparency of his work, and was later viewed as a leading figure for all those artists mentioned above: that same Walker Evans whose photographs «are about what is photographed, how what is photographed is changed by being photographed, and how things exist in photographs».

 

image

Window #9, 2002

image

Window #41, 2007

L’artista canadese Jeff Wall, quando alla fine degli anni Settanta tale crisi era giunta a maturazione, è stato invece una figura chiave per l’apertura della fotografia all’idea di finzione. Per fare ciò, Wall decise di «contrastare l’estetica classica della fotografia, completamente radicata nell’idea di fatto, … facendo fotografie che sospendessero la richiesta di realtà, mentre continuavano a suscitare nello spettatore un coinvolgimento con essa», introducendovi una rinnovata influenza della pittura e soprattutto del cinema. Questo assunto è decisivo per gli intenti e le modalità operative di Giorgio Barrera, che partendo da qui e scegliendo i propri riferimenti, fa le sue mosse su quel terreno incerto e costruisce la sua idea di immagine fotografica.

I maestri del passato la cui opera si rivela seminale in quest’analisi sono almeno due. Il primo è senz’altro Jan Vermeer, capace di dipingere «come se i fenomeni visivi fossero catturati e resi presenti senza l’intervento della mano umana» e per questo spesso indicato, non senza forzature, come “protofotografo”. In particolare il suo celebre quadro del 1658 noto come La stradina presenta elementi che ritroviamo poi informare le immagini di Barrera: il punto di vista frontale che lascia correre lo sguardo su un punto di fuga solo ove una porta si apre su un vicolo sulla sinistra; la dovizia di particolari con cui è ritratta una scena urbana quotidiana in cui nulla di particolare sta avvenendo; l’attenzione all’architettura e alla sua materia, ma come strumento per contestualizzare la vita che vi si svolge. Il secondo riferimento irrinunciabile è l’opera di Edward Hopper, che negli anni venti inaugurò una serie di vedute di interni domestici attraverso le finestre che avrebbe continuato fino ai suoi ultimi anni. In Night Windows, oltre una di tre finestre illuminate si intravede una donna di spalle, senza che possiamo capire a quale attività si stia dedicando. In opere successive basate sul medesimo principio visivo, si hanno vedute sia con un campo più ristretto, in cui la finestra funge solo da cornice, sia assai ampio, come in House at dusk, del cui taglio – un edificio con finestre illuminate occupa la parte inferiore del dipinto, un bosco e il cielo quella superiore – alcune riprese di Barrera sono certo memori.

 

 

On the other hand the Canadian artist Jeff Wall, when at the end of the Seventies this crisis had reached its climax, played a key role in opening up photography to the idea of pretence. To achieve this, Wall decided to «contest the classical aesthetic of photography, as too absolutely rooted in the idea of fact… making photographs that put the factual claim in suspension, while still creating an involvement with factuality for the viewer», introducing once more the influence of painting but to a greater extent of cinema. This tenet is essential for the intents and technical mode of operation adopted by Giorgio Barrera, who taking this as his starting point and choosing his own points of reference, makes two moves within this undefined spectrum and builds his own idea of the photographic image.
The masters of the past whose work turns out to be essential to this analysis are at least two. The first is undoubtedly Jan Vermeer, who was capable of painting «as if the visual phenomena were captured and made manifest without the intervention of the human hand» and for this is often considered, unsurprisingly, as a “protophotographer”. In particular his famous painting of 1658 known as The little street presents elements that we find in Barrera’s images: the frontal point of view that allows the gaze to travel along one single perspective line where a door opens up on a small alley on the left; the wealth of details with which this everyday town scene is depicted where nothing particular is happening; the attention paid to the architecture and its texture, as a tool to contextualise the life that takes place within it. The second unavoidable reference is the work of Edward Hopper, who in 1928 with his painting Night Window, launched a series of interior domestic views seen through windows that he was to continue right up to his last years. In this canvas, beyond one of the three lit windows one can make out a woman seen from behind, without understanding what she actively is engaged in. In subsequent works based on the same visual principle, there are views with an even narrow field of vision, where the window acts simply as a frame, or much broader ones such as House at dusk, the perspective view of which – a building with light windows occupies the lower half of the painting, a wood and the sky the upper part – is certainly reminiscent of certain of Barrera’s framings.

In the history of cinema, it would seem even too simplistic to recall Alfred Hitchcock with his Rear Window (1954) or Brian del Palma’s Body Double (1984) and after all, even compared to Hopper, this series of names goes to form an obvious backward quoting chain. It is instead very interesting, if we wish to understand Barrera’s work, to retrieve the concept of “cinematic photography” coined by Jeff Wall to describe his own works. With it Wall does not mean images resulting out of a merely imitative process compared to motion pictures, but rather that they exploit the actual production techniques, such as the use of performers (not necessarily actors) and equipment usually found on a film set. Wall actually claims that the way we look at a film in a movie house has little or nothing to do with how we look at a picture hanging on a wall, and in actual fact another very important characteristic of such photographs, that sets them apart form film, is the absence of an extended narrative, a before and after the image, which suspends the meaning and makes them extremely intriguing.

 

image

SCHONEBERG – BERLIN, 2009

In Attraverso la finestra c’è dunque un complesso background di influenze che esercita un ruolo importante e conduce Barrera oltre il documento, ma, come detto, questa componente è tutt’altro che assente e permane a fare da contrappeso all’effetto finzione. Il lavoro di Barrera, concentrandosi sull’intimità degli interni abitati osservandoli dall’esterno, interpreta proprio questo particolare rapporto tra spazi pubblici e privati, tra chiuso ed aperto, tra la forma architettonica e la vita che gli edifici racchiudono.

Rispetto al reportage classico, che attraverso gli stilemi cui ci ha abituati tende a simulare l’assenza del fotografo e si propone come sinonimo di visione spontanea, la collaborazione all’immagine delle persone ritratte può determinare in noi una ricezione dell’immagine di tipo opposto, ma è altrettanto vero che crea un sentimento di complicità con lo spettatore schiudendo una genuinità diversa e inattesa. Se si tratta perciò di una parziale mise en scène, in essa le persone interpretano se stesse, agendo non da attori ma da performers della propria stessa vita, e portandovi una profonda autenticità data dalla consapevolezza del mostrarsi per ciò che si è. Questo patto ci rende meno voyeurs di quanto l’effetto finestra potrebbe indurre e ristabilisce il senso di indagine antropologica delle fotografie.

Barrera mira a far soffermare a lungo lo sguardo su questo reale intimo che si apre per noi, e ottiene lo scopo con un attento studio compositivo e un sapiente bilanciamento delle luci. Se costruisce l’immagine ripensando alla storia della pittura moderna e conferendole un sapore cinematografico, paradossalmente è proprio grazie all’ampio affermarsi di questo genere di fotografia, che dagli anni Ottanta ha dato vita sempre più spesso a situazioni e personaggi virtuali, che Barrera, attestandosi su quel terreno di confine di cui si è detto, può muoversi in modo nuovo in direzione del documento, non lontano da come diCorcia ha riformulato la street photography.

La finestra, elemento architettonico di separazione e raccordo, delimita la scena in cui agiscono i protagonisti e di cui l’esterno dell’edificio, contenitore degli eventi del quotidiano, costituisce la quinta. Incorniciate da questa scenografia, le persone appaiono spesso voltate o parzialmente nascoste da una tenda o dagli infissi, come in un’immagine di Lee Friedlander. L’arte di Giorgio Barrera è forse quella di porre una fotografia in un quadro.

 

Daniele De Luigi

 

In Through the window there is therefore a complex background of influences that plays an important role and takes Barrera beyond the document, yet, as has already been pointed out, this component is by no means absent and continues to act as a counterweight to the fictional effect. In the photographs of this series taken in Reggio Emilia for the specific Fotografia Europea project, this tension actually seems to achieve an almost perfect balance, owing perhaps to the nature of the commission itself. Here the houses and the windows are those of the residential district Ina-Casa Rosta Nuova in Via Josef Wybicki, designed by the architects Franco Albini, Franca Helg and Enea Manfredini in 1956 and completed at the beginning of the Sixties.

A paragon of popular architecture, it features a square, covered porticoes for the shopping areas, nursery and primary schools, a library and a church, and was conceived as an urban layout that might favour a sense of community and the social cohesion of the residents through a sense of neighbourhood and participation. The interiors of the houses actually open out onto the public areas and are in constant communication with each other.

Barrera’s work, focusing as it does on the intimacy of the inhabited interiors by observing them from without, would seem to interpret this particular relationship between public and private spaces, between closed and open, between the architectural form and the life the buildings contain. Behind the open view brickwork, beyond the worn or refurbished blinds, normal people offer their domestic or working microcosm to our gaze. Certain houses show the many layers of objects and memories that over the decades have collected in them, while others, simple or almost bare, or even recently refurbished, reveal the beginning of a new living experience or the uncertainty of its precariousness. The faces of the residents tell us about a neighbourhood that today, after over forty years, is experiencing a period of deep change and from the state of things as they stand is attempting to redesign itself on the concepts of citizenship and participation. Those who’ve been there ever since it’s foundation, who are now old, alternate with the young and the foreigners. There are also the schools and the library, public meetings and exchange locations, that owing to their very nature tend to keep the people who spend time there in a general condition of reservedness.

This is the neighbourhood as we see it through Barrera’s images. It is the neighbourhood as it can be seen by someone who is visiting it and as the inhabitants might recognise it, a proof of the documentary value of the photographs. Faced with the tangible quality of these realistic elements, how is one to interpret the fictional effect that is also grafted onto them to the same degree?
Compared to the standard reportage, that through the stylistic choices we have become used to tends to simulate the absence of the photographer and stands as synonymous to spontaneous vision, the actual collaboration in the image creation by the people depicted may trigger in us an acceptance of the image of an opposite nature, but it is also equally true that it creates a feeling of complicity with the spectator by revealing a different and unexpected authenticity. If it is therefore owing to a partial staging, in it people play themselves, acting not as actors but as performers  of their own life, and therefore imbuing the images with a sense of profound reality that is provided by the awareness of showing oneself as what one actually is.
This arrangement makes us less voyeurs than the window effect might make us believe, and reasserts the photograph’s role as part of an anthropological investigation.
Barrera is interested in getting our gaze to linger on this intimate reality that opens up before us, and achieves this goal through  his attention to composition and a very skilful balancing of the lighting.
His images may be created with reference to the history of modern painting and by imbuing it with a cinematic flavour, yet thanks to the widespread success that this kind of photography has achieved, that has lead to the introduction ever since the Eighties of increasingly virtual situations and characters, Barrera can effectively claim that however much his work hovers on the border between reality and fictional as has already been pointed out, he is actually finding a new path towards documentary representation, comparable to the way in which diCorcia has revisited street photography.
The window, the connecting and separating architectural element, delimits the set in which the main characters perform and of which the outside of the building, the container of everyday events, constitutes the stage wing. Framed by this setting, the people often seem to be looking away or partially hidden by a curtain or by the shutters, as is the case in the images of Lee Friedlander. The art of Giorgio Barrera is perhaps about placing a photograph in a painting.

image

Window #27, 2007

STORIE VERE/TRUE STORIES, mostra alla Jarach Gallery, Venezia
A cura di Daniele De Luigi

 

La ricerca di Giorgio Barrera muove da un interesse di tipo psicologico e sociologico nei confronti delle persone, viste come singolarità soggette ai condizionamenti del contesto sociale, e, di riflesso, verso gli spazi abitati intesi come teatro in cui va in scena la loro esistenza. Le sue prime serie di lavori, Psychologies e Instructions for use, ponevano l’accento l’una sui gesti che regolano il nostro rapporto con gli oggetti e gli ambienti quotidiani, l’altra sul contrasto tra la nostra individualità e la standardizzazione dei comportamenti dettati dalle regole d’uso di alcuni prodotti per l’igiene e la salute personali.
Negli anni recenti Barrera ha sviluppato un progetto, tuttora in corso, in cui le persone vengono fotografate in un interno domestico attraverso una finestra: uno stratagemma apparentemente semplice, con cui l’artista riesce invece a innestare sulle tematiche precedenti una serie di riflessioni e di nuovi meccanismi psicologici che coinvolgono lo spettatore.
La finestra rappresenta infatti nella nostra tradizione culturale una metafora dell’occhio, come soglia percettiva che separa e mette in comunicazione attraverso lo sguardo il sé e il mondo esterno, e anche l’atto dell’inquadratura fotografica, con cui si incornicia e seleziona una porzione di realtà visibile, ne emula forma e funzione. Con l’inserimento della scena in questa doppia cornice – la fotografia e la finestra – Barrera ne esplicita dunque la teatralità e le conferisce al tempo stesso un aspetto pittorico, che va ineludibilmente a confliggere con l’apparente documentarietà del contenuto. La presenza della finestra suddivide lo spazio dell’immagine in interno ed esterno, ma accentua anche la sensazione di separatezza tra il campo dello spettatore e quello del soggetto fotografato: questo chiarifica la nostra posizione rispetto a quanto sta accadendo, dando luogo a una simulazione di un atto di voyeurismo e rendendoci consapevoli che stiamo osservando qualcosa da un punto di vista particolare, privilegiato, in qualche modo protetto.
Barrera dunque gioca con la psicologia dello spettatore usando abilmente come arma lo statuto di verità detenuto storicamente dalla fotografia, e lo invita a gettare uno sguardo indiscreto in ambienti in cui non sarebbe autorizzato a farlo. Ai nostri occhi si presentano molte situazioni ordinarie, alcune curiose, altre che rivelano momenti intimi di serenità o di tensione. Allorché stiamo per lasciarci vincere dalla sensazione di guardare una realtà colta davvero di nascosto, l’irrompere di scene al limite dell’inquietante, in cui la logica degli eventi pare farsi indecifrabile, ci scuote.
Le questioni e gli interrogativi sollevati dalla irriducibile ambiguità delle opere di Barrera si fanno ineludibili. Cosa stiamo guardando? Cosa vediamo? E cosa resta inaccessibile, nascosto tra le pieghe dell’immagine e oltre l’inquadratura? Guardare genera un impulso a capire, a conoscere, ma la percezione di una complicità tra l’artista e le persone ritratte, di una voluta equivocità tra realismo e finzione lascia interdetto lo spettatore, la cui pretesa di decodificare ogni immagine in modo univoco come autentica o contraffatta viene sfidata apertamente: il fatto che queste abitazioni appaiano trasformate in un set di tipo cinematografico, esclude forse che i protagonisti siano persone reali ritratte nella propria casa? Che davvero quelle persone abbiano partecipato a una festa tra amici o quella donna sia distesa a terra in mezzo ai giochi del suo bambino? In fondo essi interpretano una versione credibile di se stessi, all’interno di una situazione possibile, in modo non dissimile ad un’infinità di altre circostanze della vita. Forse queste storie più che vere, come vogliono far credere, sono verosimili, ma possiamo dire che siano false? Se si tratta di storie attendibili, è perché le immagini che ce le rappresentano sono costituite da innumerevoli elementi di verità, a cui non sappiamo più che valore attribuire.
Giorgio Barrera gioca a disilludere le aspettative e la richieste dello spettatore nelle fotografie così come nel video, in cui il maggiore apporto di informazione dato dall’immagine in movimento non ci aiuta a districare il senso degli eventi. Le sue opere aderiscono al reale corrompendolo, ci conducono sui terreni ambigui dell’immagine fotografica ma lasciandoci a guardare, senza preoccuparsi di tirarcene fuori.

 

STORIE VERE/TRUE STORIES, show at JARACH GALLERY, Venice
A cura di Daniele De Luigi

 

Giorgio Barrera has been developing a project in which, through windows, people are photographed within domestic interiors. It is an apparently simple strategy, with which the artist nonetheless manages to superimpose on the preceding themes a series of observations and new psychological mechanisms, engrossing the spectator.
Skillfully wielding the status of truth, historically held by photography, Barrera thus plays on the psychology of the viewer, inviting him or her to throw an indiscrete glance at settings which he or she would not normally be authorized to view. Many ordinary and some peculiar situations are presented to our eyes; others reveal intimate moments of calm or tension. Just when we are about to let ourselves be won over by the sense of watching a covertly captured reality, the intrusion of scenes on the verge of unsettling, in which the logic of the events seems to become undecipherable, shocks us.

The issues and questions raised by the invincible ambiguity of Barrera’s work become inevitable. What are we watching? What do we see? And what remains inaccessible, hidden between the folds of the image and beyond the frame? Watching generates an impetus to understand, to know, but the perception of complicity between the artist and the people portrayed, of a willed ambiguity between realism and fiction, leaves the spectator inhibited. His or her claim to decodify each image in an unequivocal way, as authentic or counterfeit, is openly challenged. Does not the fact that these dwellings seem to be transformed into a sort of cinematographic set, perhaps, preclude the fact that the protagonists are real people portrayed in their own houses? Did those people really go to a friend’s party and is that woman really lying on the floor amidst her child’s toys? Deep down, they interpret a credible version of themselves, within a possible situation, in a manner that is not dissimilar to an infinitude of other circumstances of life. Perhaps these stories more than being true, as they would have us believe, are reliable. But can we say that they are false? If we are dealing with authentic stories, it is because the images that portray them are composed of countless elements of truth, to which we no longer know what value to attribute.

Giorgio Barrera plays at disenchanting the expectations and claims of the viewer, through the photographs, as well as the video in which the greater output of information, given by the image in motion, does not help us disentangle the sense of the events. His works adhere to the real by corrupting it. They lead us onto the ambiguous terrains of photographic images, leaving us there to watch without worrying about drawing us out.

image
image

Window #11b, 2006

Window #51, 2003

POM
Une Petit Œuvre multimédia (acronyme POM ou POEM), appelée parfois Petit Objet Multimédia, est une réalisation vidéo ou flash qui associe photographe, réalisateur, web designer, créateur sonore et illustrateur. Ce média linéaire est basé sur un montage d’après des photographies uniquement, sa réalisation sonore est très poussée. Souvent articulé selon le choix d’un angle et d’une écriture spécifique, le point de vue de ses auteurs sert de fil conducteur. Une POM peut aussi développer une problématique ou apporter un éclairage complémentaire à une information d’actualité.
Ce format court (entre une et quatre minutes) peut appartenir au genre de la fiction, du documentaire, du reportage ou du #photojournalisme, il fait partie avec le web-reportage, le webdocumentaire et la vidéographie, des nouveaux médias ou nouveaux supports de l’information.
Wilfrid Esteve

 

This Video is the very first POM (Petite_œuvre_multimédia) realized in Italy. Thanks to Laura Serani and Wilfrid Esteve.

It was displayed at my site specific show at Fotografia Europea in 2007 and in other locations in the following years.

image
image
image
image
image
image
image
image
image
image
image
image
image
image

Stockhom, 2008

Trieste, 2008

Vaasa, 2008

Oslo, 2008

Goimendia Ondarroa, 2009

Window #22, 2006

Window #37, 2006

Window #3, 2007

Artibai Ondarroa, 2009

Window #75, 2008

Ljustero, 2008

Window #38, 2007

Window #62, 2008

Soklot, 2008

Dialogo con Marco Delogu all’interno del libro
ATTRAVERSO LA FINESTRA. Zone Attive Edizioni, 2009.

 

M.D. Appena ho visto le tue foto il primo pensiero è andato Shizuka Yokomizo. Tu studi la fotografia, hai una forte curiosità per il lavoro degli altri fotografi, in particolare i contemporanei?
G.B. Penso tu ti riferisca principalmente al lavoro che è intitolato Hitorigoto. Il modo in cui Yokomizo ha lavorato è molto differente dal mio però credo che l’intento di esplorare la tensione, o la sottile linea di demarcazione che esiste tra la fotografia documentaria e quella di finzione sia comune. Studio la fotografia però devo confessare che la mia curiosità per il lavoro degli altri fotografi contemporanei non è propriamente elevata. O forse lo faccio ma non mi sembra che sia abbastanza per dire che ho una forte curiosità. A me, comunque, interessa molto il periodo in cui la fotografia ed il cinema si sono affacciati nel mondo. Direi nel momento in cui queste arti erano più pure e libere da condizionamenti e quindi potenzialmente di essere esplorate.

 

M.D. Poi dopo poco ho immaginato Giorgio Barrera che girava l’Europa un po’ come Nanni Moretti in “Caro Diario”; come trovavi i soggetti?
G.B. In un certo senso è stato così. Credo di avere percorso almeno ventimila chilometri in auto per realizzare queste fotografie. I soggetti li ho trovati con il passaparola di amici e conoscenti. Ho iniziato a contattarli per email, gli ho inviato immagini che avevo fatto precedentemente per fare capire come precisamente dovevano essere le “locations”, di quanto tempo avevo bisogno e così via. Per realizzare queste immagini ho visitato luoghi spesso lontani dalle rotte di viaggio più consuete. Forse del girovagare in vespa e degli appunti di Nanni Moretti le persone ritratte attraverso le finestre di queste località sono le annotazioni di momenti del quotidiano dei nostri giorni.

M.D. L’autofiction (Christine Angot, Patrick Modiano, ecc.), è sempre esistita ma adesso viene abbastanza teorizzata in letteratura. Credo alle commistioni di generi e a un’aria culturale che si respira sempre tra le varie discipline. Tu leggi la letteratura contemporanea, italiana e straniera, e segui i vari dibattiti all’interno delle arti visive o della letteratura? Quali sono gli scrittori che ti piacciono, e/o gli artisti contemporanei?
G.B. Purtroppo non ho letto Christine Angot e nemmeno Patrick Modiano. Li conosco solo di nome. È interessante che tu dica che l’autofiction venga solo adesso teorizzata. Io credo sia un segnale ben preciso di consapevolezza riguardo a quanto la finzione, la rappresentaizone , la riproduzione del reale si siano insinuate e penetrano ogni ambito della nostra vita. Difficile definire ciò che è vero e ciò che è finzione e quanto di vero ci sia nella finzione e quanto di falso ci sia nel vero. Per me, ad ogni modo, non è importante la verità o la falsità è importante il perchè e da chi una cosa possa essere considerata vera o falsa. Ai giorni d’oggi tutti sappiamo che il “grande fratello” così come altri “realities” siano tutti assolutamente una finzione. Eppure la maggior parte del pubblico pur sapendolo li guarda come se invece non lo fossero. Per me è disarmante. Preoccupante. Le teorie di Guy Debord vengono adesso prese in considerazione sempre da più persone e in un certo modo adesso quasi rivelate. Se questo succede è perchè lo “spettacolo” si è già trasformato in qualcos’altro.
Ogni disciplina artistica ha un suo linguaggio, non può fare a meno di essere contemporanea al tempo in cui gli artisti danno vita alle loro opere, ed ogni linguaggio, oltre che ad adattarsi ed essere parte integrante del tempo in cui è utilizzato è ontologicamente umano. Pertanto essendo una creazione umana è sostituibile e compenetrabile con altre discipline, proprio perchè è linguaggio, cioè un insieme di codici interpretativi.
Io leggo soprattutto saggistica e direi che Gilles Deleuze è il filosofo contemporaneo che ho approfondito di più, e non mi risulta che abbia mai scritto di fotografia specificatamente.
Credo che oramai non si possa più sottrarsi dalla commistione di varie discipline e direi anche che la commistione c’è sempre stata. Forse ai nostri giorni questa mescolanza, è più evidente, più consapevole. Uno scrittore direi Raymond Carver. Artisti Bill Viola e Jeff Wall. Della letteratura italiana contemporanea conosco poco.

 

M.D. Quanto c’è di personale in questa ricerca?
G.B. Di personale c’è la necessità di realizzarla. Ogni ricerca fotografica che ho fatto fino ad adesso è stata per me una sorta di sfida che nasce da una necessità di mettere in immagini un pensiero, una insofferenza, una necessità. Ho solo il desiderio che qualcuno possa riconoscere, comprendere i miei intendimenti.

M.D. Quanto “debito”, nel senso buono del termine, con fotografi come Jeff Wall, e quanta volontà di superarli e contemporaneamente superare questo strano dilemma arte fotografia?
G.B. È veramente uno strano dilemma, e anche molto italiano, quello della differenza fra arte e fotografia. Per me non esiste. Non mi sembra che un’opera d’arte si possa definire tale se in essa è presente della manualità o se l’artista ha trascorso due anni in preda ad elucubrazioni e meditazioni per produrre un’opera.

 

M.D. Il tuo lavoro precedente che mi piaceva di più era Battlefields (vedi Sally Mann alla Galleria Karsten Greve) e con il quale trovo una linea forte con le “finestre”, una linea che passa nell’osservazione lenta, profonda, storica e coinvolgente. Tu trovi un legame e quale?
G.B. Per me una situazione si osserva e si affronta frontalmente, con coerenza di visione, con oggettività. Anche se uso un mezzo ottico, ricerco una “distanza naturale” direi pittorica per rappresentare qualcosa che esiste nella mia immaginazione, forse è questo approccio che lega due lavori apparentemente molto differenti. Il lavoro di Sally Mann di cui parli, secondo me, ha come tema portante la memoria, le immagini tendono a portarci indietro nel tempo. Il lavoro dei Campi di Battaglia del Risorgimento è, di fondo, un lavoro sul paesaggio italiano contemporaneo, concerne la documentazione di luoghi che la storia ricorda ma gli italiani no. L’unità italiana, anche quello è un interessante dilemma.

 

M.D. Mi sembra che ora sia venuto il momento per fare una cosa ancora più autobiografica, una cosa solo tua. È solo un mio pensiero o ci pensi anche tu?
G.B. Mi sembra che tu mi legga nel pensiero. Ci ho pensato spesso e da molto tempo però forse più che autobiografico ciò che sto adesso realizzando è un lavoro che riguarda aspetti del mio essere che ritengo più difficili da tradurre in immagini e per la realizzazione delle quali occorre avere una maturità che forse alla mia età oramai credo di possedere. Ognuno ha il suo percorso.

 

M.D. E, last but not least, come ti arrivano le idee, come nascono nella tua mente?
G.B. Che cosa è una idea? Hai presente le immagini velocizzate di un fiore che sboccia?
Forse una idea è questo. Prima però abbiamo piantato un seme, o forse, qualcuno lo ha piantato per noi. Senza dirci niente. L’importante è capire se, osservando bene questo fiore, questo fiore incorpora ciò che veramente cercavamo.
Di solito le idee mi vengono dalle letture che faccio. Il fatto è che non saprei dire esattamente perchè inizi a leggere una cosa invece di un’altra. Esiste anche il procedimento contrario ciò che approfondisca con delle letture qualcosa che il reale ad un certo momento ti svela. Un’idea è forse il principio di un processo creativo.